"Bada, che vengono i morti!
i tristi, i pallidi morti!
Entrano, ansimano muti.
Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte intorno a quel bianco.
Stanno lì sino al domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,"
i tristi, i pallidi morti!
Entrano, ansimano muti.
Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte intorno a quel bianco.
Stanno lì sino al domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,"
ll due novembre tutto il mondo cristiano celebra la commemorazione dei defunti; in Sicilia, fino ad un recente passato, era anche una festa molto attesa per i più piccini.
Quando ero bambino, momento cruciale era la sera del primo novembre , quando i miei genitori dicevano: “Vai a letto ma…mi raccomando, non aprire gli occhi perché…i morti s’accorgono e….ti grattanu ‘i pieri;i più cacasotto ,ci credevano, e nonostante il sonno che non arrivava, stavamo rannicchiati e con gli occhi serrati ad aspettare il mattino, quando, cominciava la caccia al regalo che “i morti” avevano nascosto chissà dove in casa.
Giovanni Verga cita la “Festa dei morti” in Vagabondaggio del 1887: “ le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe fila di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti”
La sera prima si nascondeva la grattugia perché si pensava che i defunti, a chi si fosse comportato male, sarebbero andati a grattare i piedi!
Eravamo eccitati e speravamo di ricevere in regalo l’ultimo modello di “colt” come quella che avevamo visto usare nell’ultimo western; le femminucce parlottavano e si facevano i dispetti ancor prima “‘u sai, i morti mi porteranno Cicciobello chi chianci e si piscia ‘i supra”;
Armi santi, armi santi iu sugnu uno e vuatri siti tanti:
mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai,
cosi di morti mittiminni assai.
Per non fare perdere ai bambini la memoria dei parenti defunti, fino a qualche decennio fa, in quel giorno c’era la tradizione di portare loro dei doni e far credere, nella loro dolce innocenza, che a fare ciò erano stati “li murticeddi”. Per spiegare questo fenomeno, per loro soprannaturale, si sosteneva che i defunti, usciti dalle tombe, andassero a comprare dolciumi e oggetti vari e poi li portassero come regalo ai bambini più buoni. La delusione era forte, quando a scuola i ragazzi più grandi se ne ridevano della loro convinzione.Quando ero bambino, momento cruciale era la sera del primo novembre , quando i miei genitori dicevano: “Vai a letto ma…mi raccomando, non aprire gli occhi perché…i morti s’accorgono e….ti grattanu ‘i pieri;i più cacasotto ,ci credevano, e nonostante il sonno che non arrivava, stavamo rannicchiati e con gli occhi serrati ad aspettare il mattino, quando, cominciava la caccia al regalo che “i morti” avevano nascosto chissà dove in casa.
Giovanni Verga cita la “Festa dei morti” in Vagabondaggio del 1887: “ le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe fila di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti”
La sera prima si nascondeva la grattugia perché si pensava che i defunti, a chi si fosse comportato male, sarebbero andati a grattare i piedi!
Eravamo eccitati e speravamo di ricevere in regalo l’ultimo modello di “colt” come quella che avevamo visto usare nell’ultimo western; le femminucce parlottavano e si facevano i dispetti ancor prima “‘u sai, i morti mi porteranno Cicciobello chi chianci e si piscia ‘i supra”;
A provvedere naturalmente erano i genitori che si facevano accompagnare dai nonni “vivi” (con la speranza che mettessero mani in sacchetta); “a’ Liviedda” (a piazza Olivella) dove si organizzava “la fiera dei morti”.
Si trovava di tutto, pupi ri pezza, Barbie e Ken, cavadduzzi ri plastica russi, machinicchi ra polizia, camiuna ri pumpieri, bambole ri porcellana, ecc.
Si trovava di tutto, pupi ri pezza, Barbie e Ken, cavadduzzi ri plastica russi, machinicchi ra polizia, camiuna ri pumpieri, bambole ri porcellana, ecc.
"Tal'e' chi misuri i morti
u pupu cu l'anchi torti
a atta c'abballava
u succi ca sunava"
passa la zita ca vesta ri sita,
passa lu baruni chi cavusi a pinnuluni “.
Poi, ricordo ancora che il 2 novembre a chi mi chiedeva: “Chi ti purtaru li Morti?” La risposta era la solita:
u pupu cu l'anchi torti
a atta c'abballava
u succi ca sunava"
passa la zita ca vesta ri sita,
passa lu baruni chi cavusi a pinnuluni “.
Poi, ricordo ancora che il 2 novembre a chi mi chiedeva: “Chi ti purtaru li Morti?” La risposta era la solita:
“U pupa cu l‟anchi torti!”.
I bambini andavano contenti con i genitori a fare visita ai cari defunti per ringraziarli dei doni ricevuti.
statuette di zucchero dipinte, ritraenti figure tradizionali come i Paladini. Tradizione esclusivamente palermitana, vengono chiamati “pupi a cena” o “pupaccena”, per via di una leggenda che narra di un nobile arabo caduto in miseria, che li offrì ai suoi ospiti per sopperire alla mancanza di cibo prelibato.
I bambini andavano contenti con i genitori a fare visita ai cari defunti per ringraziarli dei doni ricevuti.
Per ricompensare il regalo ricevuto si allestiva " u cannistru "il cestino dei dolci dei morti.
Secondo le condizioni economiche delle famiglie,nel cannistru, si poteva trovare: “calia e favi caliati, pastigghia, ficu sicchi, ranati, cutugna nuci, nuciddi, nuciddi americani (arachidi)”. Non c’è da meravigliarsi dei regali così miserevoli per i giorni nostri; ma la frutta allora era considerata un bene voluttuario. Inoltre: “Bombolona” (le caramelle artigianali di una volta), “tetù, muscardina, mustazzola, quaresimali, viscotti picanti”. I meno poveri ricevevano “li cosi di morti”, come: confetti, caramelle, cioccolatini, finte sigarette e soldoni di carta dorata o argentata ripieni di cioccolata.
Secondo le condizioni economiche delle famiglie,nel cannistru, si poteva trovare: “calia e favi caliati, pastigghia, ficu sicchi, ranati, cutugna nuci, nuciddi, nuciddi americani (arachidi)”. Non c’è da meravigliarsi dei regali così miserevoli per i giorni nostri; ma la frutta allora era considerata un bene voluttuario. Inoltre: “Bombolona” (le caramelle artigianali di una volta), “tetù, muscardina, mustazzola, quaresimali, viscotti picanti”. I meno poveri ricevevano “li cosi di morti”, come: confetti, caramelle, cioccolatini, finte sigarette e soldoni di carta dorata o argentata ripieni di cioccolata.
Ma su tutto questo regnava sovrana la più colorata di tutti, la
Frutta di Martorana
Dolce tipico palermitano fatto di pasta reale, è modellato con le tipiche formine di gesso nelle varianti di frutta, ortaggi ehm… panino con la milza.
Frutta di Martorana
Dolce tipico palermitano fatto di pasta reale, è modellato con le tipiche formine di gesso nelle varianti di frutta, ortaggi ehm… panino con la milza.
Il dolce più prelibato, ebbe origine alla fine del 1812, con la venuta a Palermo di Maria Carolina d’Austria, Regina delle Due Sicilie, che andò a far visita alle monache del monastero della chiesa della Martorana; queste le offrirono dei dolci fatti di pasta di mandorla e zucchero, confezionati così bene nel colore e forma della frutta naturale, da fare rimanere stupefatta la sovrana. Da cio', la tradizione di acquistare questi dolci novembrini, che si è diffusa in tutta la Sicilia.
i Pupi ri zuccarustatuette di zucchero dipinte, ritraenti figure tradizionali come i Paladini. Tradizione esclusivamente palermitana, vengono chiamati “pupi a cena” o “pupaccena”, per via di una leggenda che narra di un nobile arabo caduto in miseria, che li offrì ai suoi ospiti per sopperire alla mancanza di cibo prelibato.
Le origini veneziane dei pupi dizucchero
La pupaccena, al contrario di ciò che si potrebbe presumere, non è nata a Palermo. Ma i nostri avi ci hanno messo la materia pri- ma, lo zucchero, e sicuramente ne hanno reinventato le forme, adattandole al nostro immagina- rio tradizionale. Le dolci statuette di zucchero, infatti, sono apparse a Venezia nel 1574, quando, in oc- casione della visita di Enrico III, fi- glio di Caterina de' Medici, il do- ge della città organizzò una mae- stosa cena. «Alla decorazione dei tavoli - racconta lo storico Gaeta- no Basile - ci pensarono gli ap- prendisti della bottega del Sanso- vino che, con il nostro zucchero di canna, di cui un tempo erava- mo i principali esportatori, realiz- zarono delle elaborate sculture, come una fontana con dei piccio- ni, il leone di San Marco, ed una donna a cavallo, che montava al- la maniera virile, e che rappresen- tava Caterina de' Medici. I mari- nai siciliani che si trovavano in cit- tà, appena ricevettero la notizia dell'enorme successo che gli stra- vaganti dolci avevano riscosso presso i commensali, decisero di importarli nella nostra Isola, do- ve questi vennero, però, comple- tamente rimodellati con le fattez- ze dei paladini». La tradizione ha poi reso i pupi di zucchero il dono dei parenti defunti per i più picci- ni. «Era un modo per collegare le vecchie generazioni con le nuove - spiega Basile - , ora, sostituita da Halloween, questa tradizione è andata perduta».
Nella stessa ricorrenza era consuetudine da parte “di lu zitu” portare a “la zita” un cesto con “lu pupu di zuccaru”, che rappresentava una coppia di fidanzati; inoltre, per il primo anno di fidanzamento, un ombrello, più altri regali di maggior valore. Oggi questa consuetudine è quasi scomparsa, poiché i regali arrivano in ogni occasione, tutto l’anno.
E’ con sommo dispiacere constatare che questa ricorrenza, dedicata ai defunti e che interessava i bambini, scompaia, per far posto ad un’altra: “Halloween”, di origine inglese, proveniente da una cultura non nostra, che permette di festeggiare streghe e folletti dei boschi nordici. Purtroppo, oggi, come frutto indesiderato della recente globalizzazione, i popoli economicamente e militarmente più evoluti, anche se dotati di una cultura di poco valore, hanno esercitato molta influenza su altri popoli, spesso con un più ricco patrimonio di conoscenze. Così in Sicilia si sono perduti o modificati dei valori umani inestimabili, come i costumi, il modo di vivere, di pensare, di occupare il tempo libero, di lavorare, di giocare, di comunicare in seno alla famiglia e nella società. La concezione di sacralità della famiglia e di rispetto verso i suoi componenti, da noi continuava più che mai anche dopo la morte. Questa ricchezza d’animo, questa “corrispondenza d’amorosi sensi”, per come sosteneva il Foscolo, era qualcosa che noi siciliani ci portavamo dietro da millenni e nessuna colonizzazione era riuscita a portarci via.
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