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martedì 29 ottobre 2013

"SUTTA E PATRUNI"

Nino Martoglio è per la Sicilia quello ch'è il Di Giacomo e il Russo per Napoli; il Pascarella e Trilussa per Roma; il Fucini per la Toscana; il Selvatico e il Barbarani per il Veneto: voci native che dicono le cose della loro terra, 
come la loro terra vuole che siano dette.
"U TOCCU"
('ntra la taverna d' 'u zù Turi u' Nanu)
Attoccu ju... vintottu 'u zù Pasquali...

Biviti? – Bivu, chi nun su' patruni?
– Tiniti accura... vi po' fari mali...
– Maccu haju a' casa! – E ju scorci 'i muluni!...
– Patruni fazzu... – A cui ? – A Ciccu Sali
– Ah!... E sutta? – A Jabicheddu Tartaruni.
– (A mia 'mpinniti ?... A corpa di pugnali
– finisci, avanti Diu!...) – 'Stu muccuni,
– si quannu mai, ci 'u damu a Spatafora?...;
– – Troppu è, livaticcinni un jriteddu.
– – Nni fazzu passu!... – A cui?... Nisciti fora!...
– A mia 'stu sfregiu? – A vui tintu sardaru!...
– Largu! – Largu! – Sta' accura! – 'U to' cuteddu!...
– – Ahjai, Sant'Aituzza!... m'ammazzaru!





Il tocco è un giuoco che si fa col vino con la birra. Aprendosi da ciascuno dei giocatori uno o più dita, si sommano, pel numero, e, a partire da quello dei giuocatori già designato, si conta. L'individuo nel quale il numero finisce, diventa padrone del vino e può berne quanto gli pare. Dopo aver bevuto, consegna il vino che resta,nominando un “Sutta” e un 2Patruni,I quail prosieguono il gioco, dando da bere a chi loro, di comune accordo, meglio aggradi. Si noti che il padrone non può dar da bere ad alcuno senza il consenso del sutta.
La fervidissima fantasia del siciliano lo ha arricchito di tali e tante regole, che il giuocarlo con esattezza diventa ben difficil cosa ed è spesso causa di vivaci dissensi, di calorosi diverbii e di sanguinose risse, specie tra la maffia) – 'a taverna d' 'u zù Turi 'u Nanu (famosa bettola sita in via Grotte Bianche, ritrovo della malavita)

" LI TRIZZI DI DONNA "


«Presso il cosiddetto Curtigghiu di li setti Fati [cortile delle sette Fate], nelle vicinanze dell’antico monastero di S. Chiara, venivano sette Donne di fuora, tutte una più bella dell’altra, conducenti seco qualche uomo e qualche donna, cui facevano vedere cose mai viste: balli, suoni, conviti. E li portavano pure sopra mare, molto lontano, e li faceano camminare sull’ acqua senza che si bagnassero. Tutte le notti esse ripetevano questo, e la mattina sparivano senza lasciar traccia di sè»

Giuseppe Pitrè, “Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano”


“ Li trizzi di donna”, erano delle ‘trecciuole inestricabili’ di capelli 

che le "donne di fuora" procuravano al bambino accarezzandogli i capelli e cantandogli una ninnananna: erano  il segno inequivocabile della loro protezione e benevolenza.



 Dei regali che le "donni"vecchie matrone fanno alle madri che abitano la casa che loro custodiscono, intrecciando i capelli dei pargoli che vivono nell’abitazione che un tempo fu delle stesse donni.



Dei segnali che queste signore regalavano soprattutto ai bambini ed ai ragazzini, per dimostrare , si diceva, la loro benevolenza. Quindi guai a toccarle, a cercare di districarle o a tagliarle : le “donni” si sarebbero offese e si sarebbero vendicate sul bambino, facendolo ammalare ed a volte anche morire. Bisognava attendere pazientemente che “li donni” facessero cadere quelle ciocche ribelli così come le avevano fatte spuntare.


I doni delle donne devono essere accettate. Nessuno può tagliare questo legame magico tra la terra dei vivi e quella dei non morti. Le trecce si scioglieranno con il tempo, quando le donne lo riterranno opportuno.

Capelli e credenze popolari



Fin dalle epoche più remote, nelle credenze popolari e religiose i capelli sono stati considerati sede della vita o della forza di una persona. Questo assunto, tra gli altri, è confermato da Sansone: “ I miei capelli non sono mai stati tagliati…Se uno mi taglia i capelli, io perdo la mia forza e divento debole come qualsiasi altro uomo” (Giudici, 16, 17)
 E’ credenza comune che i bambini cresceranno sani e forti se fino al primo anno di vita non si taglieranno loro i capelli. Alla forza si aggiungerà la fortuna se i capelli verranno tagliati a zazzera. E se fra i primi capelli del bambino se ne trovi uno bianco, si deve avere cura di non strapparlo perché è anch’esso messaggero di fortuna
le donne superstiziose, quando hanno finito di pettinarsi, usano raccogliere i capelli che son loro caduti dal capo e li bruciano o vi sputano sopra o li nascondono per evitare che finiscano nelle mai di majare e stregoni. Una ciocca di capelli è per le streghe l’oggetto del desiderio, lo strumento privilegiato per potere “lavorare” proficuamente nelle loro fatture di seduzione o di nocumento. In quest’ultimo caso, dopo la recita della formula “Tu u facisti a mia e iù ‘u fazzu a tia: comu si nni va stu capiddu, comu u ventu si nn’avi a gghiri iddu”, si prendono i capelli della persona bersaglio e si lasciano volare via dalla finestra. I risultati letali sono garantiti.






domenica 27 ottobre 2013

"LE DONNE DI FORA"


Le "donne di fora" o "donne di casa", "donne di notti", "belli Signuri" , "patruni di casa", hanno creato molta attenzione nel mondo magico siciliano.

 Per risalire all’identità di queste misteriose ‘signore’, dobbiamo riandare brevemente ad una credenza diffusa nel Medioevo. 

"Donne di fuori" erano chiamate dal popolo siciliano le "dominae nocturnae", ricordate nei testi medievali. Esse, secondo quanto raccolto da Giuseppe Pitrè, sarebbero state delle donne bellissime, di alta statura, di forme opulente e dai lunghi e lucenti capelli. Di giorno si nascondevano e uscivano solo di notte. 
Sono esseri soprannaturali, un po’ streghe un po’ fate, senza potersi discernere in cosa differiscono le une e dalle altre. Con facilità le ‘donne’ si adiravano contro coloro che le avevano offese e li punivano con la miseria e le malattie. Le ‘donne di fuori’ amavano essere trattate con gentilezza e circondate di rispetto. Se erano accolte con l’offerta di cibi prelibati (marmellate, confetti, ma più spesso miele), musiche e balli, ricambiavano i loro ospiti con la buona salute e la fortuna. Non ci meraviglia, quindi, la circostanza che le ‘signore’ appaiano, nei processi, rispettate e temute dal popolo. 

Geni benefici,ma anche malefici,sono donne di grande bellezza,amano le case pulite, escono di notte il giovedi, penetrano nelle case dai buchi delle serrature e dalle fessure degli usci. Se l’alba le sorprende, si tramutano in rospi e aspettano sotto questa forma la notte successiva. 
Giuseppe Pitre’ riconosce la loro ambivalenza: delle fate hanno il pregio di andare in giro a spargere benefici a qualche disgraziato, ma a considerarle piu’ intimamente sono delle vere e proprie potentissime streghe.

Pitre’ afferma: amori ed odii, simpatie e antipatie le donne di fora li manifestano soprattutto nei bambini, specialmente lattanti. Esse li cambiano e li sostituiscono con altro piu’ bello o piu’ brutto o piu’ povero e viceversa.Il bambino "canciatu" e’ il bambino affatturatu e lo si giudica tale perche’ perde il colore del viso,emacia a vista d’ochio e non se ne comprende il perche’. 

La credenza e’ ben nota agli studiosi di folklore europeo: I bambini scambiati da fate o fauni si chiamano "changelin” in Francia o “ fairy” in Inghilterra. La plurisecolare credenza delle donne di fora e’ radicata in tutta la Sicilia. 



Questa tradizione approda nella piu’ alta trasfigurazione letteraria nella favola del bambino cambiato di Luigi Pirandello,con il personaggio di Vanna Scoma, la fattucchiera che ha fama di essere in miteriosi commerci con le donne di fora tanto da saper indicare alla madre il luogo dov’e’ andato a finire il figlio che le e’ stato cambiato, una notte di anni prima ancora in fasce per farne il figlio di un re.

 "LA FAVOLA DEL FIGLIO CAMBIATO"
 In un villaggio una donna piange la sua tragedia: le streghe le hanno rubato il figlio sostituendolo con un esserino deforme. Le amiche la confortano e la conducono da Vanna Scoma, una fattucchiera la quale assicura che il bambino si trova ben sistemato in una reggia e consiglia di non cercarlo. Passa qualche anno e gli avventori di un caffè del villaggio commentano l'arrivo di un principe, venuto in quel luogo per ritrovare la salute. Mentre gli uomini stanno discorrendo entra un giovane ottuso e deforme, chiamato Figlio di re: è il ragazzo che le streghe avevano lasciato nel villaggio. Tra le risate generale il giovane dichiara la sua discendenza reale, ma sopraggiunge la madre che afferma di riconoscere nel principe appena arrivato il suo vero figlio. Intanto i ministri che sono al seguito del principe commentano le cattive notizie giunte dalla corte: il re è ammalato e il popolo è in rivolta. Arriva Vanna Scoma e dichiara di sapere che il re è morto; il principe deve subito tornare in patria. Il principe intanto si accorge di essere spiato dalla donna e le chiede il nome; ella gli risponde solo di avere avuto un figlio che gli assomigliava e che questo poi le è stato rapito. Sopraggiunge Figlio di re che si getta contro il principe cercando di ucciderlo, ma costui riesce a evitare il colpo. Accorrono i ministri e insistono perché il principe parta e tori in patria; la donna però indica nel ragazzo deforme il vero erede al trono e il principe, stanco della vita di corte, invita i ministri ad accettare Figlio di re come loro sovrano: quando il mostricciattolo avrà in testa la corona sembrerà un vero re. Egli resterà povero, ma felice, con la donna che lo crede suo figlio.

 

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