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venerdì 1 novembre 2013

"LU IORNU DI LI MORTI"

Una suggestiva poesia del Pascoli, La tovaglia, rende in modo tenero e suggestivo la sensazione della presenza dei cari scomparsi in casa:
"Bada, che vengono i morti!
i tristi, i pallidi morti!
Entrano, ansimano muti.
Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte intorno a quel bianco.
Stanno lì sino al domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,"
ll due novembre tutto il mondo cristiano celebra la commemorazione dei defunti; in Sicilia, fino ad un recente passato, era anche una festa molto attesa per i più piccini.

Armi santi, armi santi iu sugnu uno e vuatri siti tanti:
mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai, 
cosi di morti mittiminni assai.
Per non fare perdere ai bambini la memoria dei parenti defunti, fino a qualche decennio fa, in quel giorno c’era la tradizione di portare loro dei doni e far credere, nella loro dolce innocenza, che a fare ciò erano stati “li murticeddi”. Per spiegare questo fenomeno, per loro soprannaturale, si sosteneva che i defunti, usciti dalle tombe, andassero a comprare dolciumi e oggetti vari e poi li portassero come regalo ai bambini più buoni. La delusione era forte, quando a scuola i ragazzi più grandi se ne ridevano della loro convinzione.
Quando ero bambino, momento cruciale era la sera del primo novembre , quando i miei genitori dicevano: “Vai a letto ma…mi raccomando, non aprire gli occhi perché…i morti s’accorgono e….ti grattanu ‘i pieri;i più cacasotto ,ci credevano, e nonostante il sonno che non arrivava, stavamo rannicchiati e con gli occhi serrati ad aspettare il mattino, quando, cominciava la caccia al regalo che “i morti” avevano nascosto chissà dove in casa.

Giovanni Verga cita la “Festa dei morti” in Vagabondaggio del 1887: “ le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe fila di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti” 

La sera prima si nascondeva la grattugia perché si pensava che i defunti, a chi si fosse comportato male, sarebbero andati  a grattare i piedi! 
Eravamo eccitati e speravamo di ricevere in regalo l’ultimo modello di “colt” come quella che avevamo visto usare nell’ultimo western; le femminucce parlottavano e si facevano i dispetti ancor prima “‘u sai, i morti mi porteranno Cicciobello chi chianci e si piscia ‘i supra”; 
A provvedere naturalmente erano i genitori che si facevano accompagnare dai nonni “vivi” (con la speranza che mettessero mani in sacchetta); “a’ Liviedda” (a piazza Olivella) dove si organizzava “la fiera dei morti”.
Si trovava di tutto, pupi ri pezza, Barbie e Ken, cavadduzzi ri plastica russi, machinicchi ra polizia, camiuna ri pumpieri, bambole ri porcellana, ecc.

"Tal'e' chi misuri i morti
u pupu cu l'anchi torti
a atta c'abballava 
u succi ca sunava"
passa la zita ca vesta ri sita,
passa lu baruni chi cavusi a pinnuluni “.

 Poi, ricordo ancora che il 2 novembre a chi mi chiedeva: “Chi ti purtaru li Morti?” La risposta era la solita:  
“U pupa cu l‟anchi torti!”. 
I bambini andavano contenti con i genitori a fare visita ai cari defunti per ringraziarli dei doni ricevuti.
Per  ricompensare il regalo ricevuto si allestiva " u cannistru "il cestino dei dolci dei morti. 

Secondo le condizioni economiche delle famiglie,nel cannistru, si poteva trovare: “calia e favi caliati, pastigghia, ficu sicchi, ranati, cutugna nuci, nuciddi, nuciddi americani (arachidi)”. Non c’è da meravigliarsi dei regali così miserevoli per i giorni nostri; ma la frutta allora era considerata un bene voluttuario. Inoltre: “Bombolona” (le caramelle artigianali di una volta), “tetù, muscardina, mustazzola, quaresimali, viscotti picanti”. I meno poveri ricevevano “li cosi di morti”, come: confetti, caramelle, cioccolatini, finte sigarette e soldoni di carta dorata o argentata ripieni di cioccolata.

Ma su tutto questo  regnava sovrana la più colorata di tutti, la 

Frutta di Martorana 
Dolce tipico palermitano fatto di  pasta reale, è modellato con le tipiche formine di gesso nelle varianti di frutta, ortaggi ehm… panino con la milza.
 Il dolce più prelibato, ebbe origine alla fine del 1812, con la venuta a Palermo di Maria Carolina d’Austria, Regina delle Due Sicilie, che andò a far visita alle monache del monastero della chiesa della Martorana; queste le offrirono dei dolci fatti di pasta di mandorla e zucchero, confezionati così bene nel colore e forma della frutta naturale, da fare rimanere stupefatta la sovrana. Da cio', la tradizione di acquistare questi dolci novembrini, che  si è diffusa in tutta la Sicilia.
 i Pupi ri zuccaru

statuette di zucchero dipinte, ritraenti figure tradizionali come i Paladini. Tradizione esclusivamente palermitana, vengono chiamati “pupi a cena” o “pupaccena”, per via di una leggenda che narra di un nobile arabo caduto in miseria, che li offrì ai suoi ospiti per sopperire alla mancanza di cibo prelibato.


Le origini veneziane dei pupi dizucchero
La pupaccena, al contrario di ciò che si potrebbe presumere, non è nata a Palermo. Ma i nostri avi ci hanno messo la materia pri- ma, lo zucchero, e sicuramente ne hanno reinventato le forme, adattandole al nostro immagina- rio tradizionale. Le dolci statuette di zucchero, infatti, sono apparse a Venezia nel 1574, quando, in oc- casione della visita di Enrico III, fi- glio di Caterina de' Medici, il do- ge della città organizzò una mae- stosa cena. «Alla decorazione dei tavoli - racconta lo storico Gaeta- no Basile - ci pensarono gli ap- prendisti della bottega del Sanso- vino che, con il nostro zucchero di canna, di cui un tempo erava- mo i principali esportatori, realiz- zarono delle elaborate sculture, come una fontana con dei piccio- ni, il leone di San Marco, ed una donna a cavallo, che montava al- la maniera virile, e che rappresen- tava Caterina de' Medici. I mari- nai siciliani che si trovavano in cit- tà, appena ricevettero la notizia dell'enorme successo che gli stra- vaganti dolci avevano riscosso presso i commensali, decisero di importarli nella nostra Isola, do- ve questi vennero, però, comple- tamente rimodellati con le fattez- ze dei paladini». La tradizione ha poi reso i pupi di zucchero il dono dei parenti defunti per i più picci- ni. «Era un modo per collegare le vecchie generazioni con le nuove - spiega Basile - , ora, sostituita da Halloween, questa tradizione è andata perduta».

 Nella stessa ricorrenza era consuetudine da parte “di lu zitu” portare a “la zita” un cesto con “lu pupu di zuccaru”, che rappresentava una coppia di fidanzati; inoltre, per il primo anno di fidanzamento, un ombrello, più altri regali di maggior valore. Oggi questa consuetudine è quasi scomparsa, poiché i regali arrivano in ogni occasione, tutto l’anno.
E’ con sommo dispiacere constatare che questa ricorrenza, dedicata ai defunti e che interessava i bambini, scompaia, per far posto ad un’altra: “Halloween”, di origine inglese, proveniente da una cultura non nostra, che permette di festeggiare streghe e folletti dei boschi nordici. Purtroppo, oggi, come frutto indesiderato della recente globalizzazione, i popoli economicamente e militarmente più evoluti, anche se dotati di una cultura di poco valore, hanno esercitato molta influenza su altri popoli, spesso con un più ricco patrimonio di conoscenze. Così in Sicilia si sono perduti o modificati dei valori umani inestimabili, come i costumi, il modo di vivere, di pensare, di occupare il tempo libero, di lavorare, di giocare, di comunicare in seno alla famiglia e nella società. La concezione di sacralità della famiglia e di rispetto verso i suoi componenti, da noi continuava più che mai anche dopo la morte. Questa ricchezza d’animo, questa “corrispondenza d’amorosi sensi”, per come sosteneva il Foscolo, era qualcosa che noi siciliani ci portavamo dietro da millenni e nessuna colonizzazione era riuscita a portarci via.



martedì 29 ottobre 2013

"SUTTA E PATRUNI"

Nino Martoglio è per la Sicilia quello ch'è il Di Giacomo e il Russo per Napoli; il Pascarella e Trilussa per Roma; il Fucini per la Toscana; il Selvatico e il Barbarani per il Veneto: voci native che dicono le cose della loro terra, 
come la loro terra vuole che siano dette.
"U TOCCU"
('ntra la taverna d' 'u zù Turi u' Nanu)
Attoccu ju... vintottu 'u zù Pasquali...

Biviti? – Bivu, chi nun su' patruni?
– Tiniti accura... vi po' fari mali...
– Maccu haju a' casa! – E ju scorci 'i muluni!...
– Patruni fazzu... – A cui ? – A Ciccu Sali
– Ah!... E sutta? – A Jabicheddu Tartaruni.
– (A mia 'mpinniti ?... A corpa di pugnali
– finisci, avanti Diu!...) – 'Stu muccuni,
– si quannu mai, ci 'u damu a Spatafora?...;
– – Troppu è, livaticcinni un jriteddu.
– – Nni fazzu passu!... – A cui?... Nisciti fora!...
– A mia 'stu sfregiu? – A vui tintu sardaru!...
– Largu! – Largu! – Sta' accura! – 'U to' cuteddu!...
– – Ahjai, Sant'Aituzza!... m'ammazzaru!





Il tocco è un giuoco che si fa col vino con la birra. Aprendosi da ciascuno dei giocatori uno o più dita, si sommano, pel numero, e, a partire da quello dei giuocatori già designato, si conta. L'individuo nel quale il numero finisce, diventa padrone del vino e può berne quanto gli pare. Dopo aver bevuto, consegna il vino che resta,nominando un “Sutta” e un 2Patruni,I quail prosieguono il gioco, dando da bere a chi loro, di comune accordo, meglio aggradi. Si noti che il padrone non può dar da bere ad alcuno senza il consenso del sutta.
La fervidissima fantasia del siciliano lo ha arricchito di tali e tante regole, che il giuocarlo con esattezza diventa ben difficil cosa ed è spesso causa di vivaci dissensi, di calorosi diverbii e di sanguinose risse, specie tra la maffia) – 'a taverna d' 'u zù Turi 'u Nanu (famosa bettola sita in via Grotte Bianche, ritrovo della malavita)

" LI TRIZZI DI DONNA "


«Presso il cosiddetto Curtigghiu di li setti Fati [cortile delle sette Fate], nelle vicinanze dell’antico monastero di S. Chiara, venivano sette Donne di fuora, tutte una più bella dell’altra, conducenti seco qualche uomo e qualche donna, cui facevano vedere cose mai viste: balli, suoni, conviti. E li portavano pure sopra mare, molto lontano, e li faceano camminare sull’ acqua senza che si bagnassero. Tutte le notti esse ripetevano questo, e la mattina sparivano senza lasciar traccia di sè»

Giuseppe Pitrè, “Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano”


“ Li trizzi di donna”, erano delle ‘trecciuole inestricabili’ di capelli 

che le "donne di fuora" procuravano al bambino accarezzandogli i capelli e cantandogli una ninnananna: erano  il segno inequivocabile della loro protezione e benevolenza.



 Dei regali che le "donni"vecchie matrone fanno alle madri che abitano la casa che loro custodiscono, intrecciando i capelli dei pargoli che vivono nell’abitazione che un tempo fu delle stesse donni.



Dei segnali che queste signore regalavano soprattutto ai bambini ed ai ragazzini, per dimostrare , si diceva, la loro benevolenza. Quindi guai a toccarle, a cercare di districarle o a tagliarle : le “donni” si sarebbero offese e si sarebbero vendicate sul bambino, facendolo ammalare ed a volte anche morire. Bisognava attendere pazientemente che “li donni” facessero cadere quelle ciocche ribelli così come le avevano fatte spuntare.


I doni delle donne devono essere accettate. Nessuno può tagliare questo legame magico tra la terra dei vivi e quella dei non morti. Le trecce si scioglieranno con il tempo, quando le donne lo riterranno opportuno.

Capelli e credenze popolari



Fin dalle epoche più remote, nelle credenze popolari e religiose i capelli sono stati considerati sede della vita o della forza di una persona. Questo assunto, tra gli altri, è confermato da Sansone: “ I miei capelli non sono mai stati tagliati…Se uno mi taglia i capelli, io perdo la mia forza e divento debole come qualsiasi altro uomo” (Giudici, 16, 17)
 E’ credenza comune che i bambini cresceranno sani e forti se fino al primo anno di vita non si taglieranno loro i capelli. Alla forza si aggiungerà la fortuna se i capelli verranno tagliati a zazzera. E se fra i primi capelli del bambino se ne trovi uno bianco, si deve avere cura di non strapparlo perché è anch’esso messaggero di fortuna
le donne superstiziose, quando hanno finito di pettinarsi, usano raccogliere i capelli che son loro caduti dal capo e li bruciano o vi sputano sopra o li nascondono per evitare che finiscano nelle mai di majare e stregoni. Una ciocca di capelli è per le streghe l’oggetto del desiderio, lo strumento privilegiato per potere “lavorare” proficuamente nelle loro fatture di seduzione o di nocumento. In quest’ultimo caso, dopo la recita della formula “Tu u facisti a mia e iù ‘u fazzu a tia: comu si nni va stu capiddu, comu u ventu si nn’avi a gghiri iddu”, si prendono i capelli della persona bersaglio e si lasciano volare via dalla finestra. I risultati letali sono garantiti.






domenica 27 ottobre 2013

"LE DONNE DI FORA"


Le "donne di fora" o "donne di casa", "donne di notti", "belli Signuri" , "patruni di casa", hanno creato molta attenzione nel mondo magico siciliano.

 Per risalire all’identità di queste misteriose ‘signore’, dobbiamo riandare brevemente ad una credenza diffusa nel Medioevo. 

"Donne di fuori" erano chiamate dal popolo siciliano le "dominae nocturnae", ricordate nei testi medievali. Esse, secondo quanto raccolto da Giuseppe Pitrè, sarebbero state delle donne bellissime, di alta statura, di forme opulente e dai lunghi e lucenti capelli. Di giorno si nascondevano e uscivano solo di notte. 
Sono esseri soprannaturali, un po’ streghe un po’ fate, senza potersi discernere in cosa differiscono le une e dalle altre. Con facilità le ‘donne’ si adiravano contro coloro che le avevano offese e li punivano con la miseria e le malattie. Le ‘donne di fuori’ amavano essere trattate con gentilezza e circondate di rispetto. Se erano accolte con l’offerta di cibi prelibati (marmellate, confetti, ma più spesso miele), musiche e balli, ricambiavano i loro ospiti con la buona salute e la fortuna. Non ci meraviglia, quindi, la circostanza che le ‘signore’ appaiano, nei processi, rispettate e temute dal popolo. 

Geni benefici,ma anche malefici,sono donne di grande bellezza,amano le case pulite, escono di notte il giovedi, penetrano nelle case dai buchi delle serrature e dalle fessure degli usci. Se l’alba le sorprende, si tramutano in rospi e aspettano sotto questa forma la notte successiva. 
Giuseppe Pitre’ riconosce la loro ambivalenza: delle fate hanno il pregio di andare in giro a spargere benefici a qualche disgraziato, ma a considerarle piu’ intimamente sono delle vere e proprie potentissime streghe.

Pitre’ afferma: amori ed odii, simpatie e antipatie le donne di fora li manifestano soprattutto nei bambini, specialmente lattanti. Esse li cambiano e li sostituiscono con altro piu’ bello o piu’ brutto o piu’ povero e viceversa.Il bambino "canciatu" e’ il bambino affatturatu e lo si giudica tale perche’ perde il colore del viso,emacia a vista d’ochio e non se ne comprende il perche’. 

La credenza e’ ben nota agli studiosi di folklore europeo: I bambini scambiati da fate o fauni si chiamano "changelin” in Francia o “ fairy” in Inghilterra. La plurisecolare credenza delle donne di fora e’ radicata in tutta la Sicilia. 



Questa tradizione approda nella piu’ alta trasfigurazione letteraria nella favola del bambino cambiato di Luigi Pirandello,con il personaggio di Vanna Scoma, la fattucchiera che ha fama di essere in miteriosi commerci con le donne di fora tanto da saper indicare alla madre il luogo dov’e’ andato a finire il figlio che le e’ stato cambiato, una notte di anni prima ancora in fasce per farne il figlio di un re.

 "LA FAVOLA DEL FIGLIO CAMBIATO"
 In un villaggio una donna piange la sua tragedia: le streghe le hanno rubato il figlio sostituendolo con un esserino deforme. Le amiche la confortano e la conducono da Vanna Scoma, una fattucchiera la quale assicura che il bambino si trova ben sistemato in una reggia e consiglia di non cercarlo. Passa qualche anno e gli avventori di un caffè del villaggio commentano l'arrivo di un principe, venuto in quel luogo per ritrovare la salute. Mentre gli uomini stanno discorrendo entra un giovane ottuso e deforme, chiamato Figlio di re: è il ragazzo che le streghe avevano lasciato nel villaggio. Tra le risate generale il giovane dichiara la sua discendenza reale, ma sopraggiunge la madre che afferma di riconoscere nel principe appena arrivato il suo vero figlio. Intanto i ministri che sono al seguito del principe commentano le cattive notizie giunte dalla corte: il re è ammalato e il popolo è in rivolta. Arriva Vanna Scoma e dichiara di sapere che il re è morto; il principe deve subito tornare in patria. Il principe intanto si accorge di essere spiato dalla donna e le chiede il nome; ella gli risponde solo di avere avuto un figlio che gli assomigliava e che questo poi le è stato rapito. Sopraggiunge Figlio di re che si getta contro il principe cercando di ucciderlo, ma costui riesce a evitare il colpo. Accorrono i ministri e insistono perché il principe parta e tori in patria; la donna però indica nel ragazzo deforme il vero erede al trono e il principe, stanco della vita di corte, invita i ministri ad accettare Figlio di re come loro sovrano: quando il mostricciattolo avrà in testa la corona sembrerà un vero re. Egli resterà povero, ma felice, con la donna che lo crede suo figlio.

mercoledì 25 aprile 2012

LA DECADENZA DEL SISTEMA PRODUTTIVO



Travolti dalle multinazionali abbiamo perso l'identità' produttiva.
In un universo di desideri,necessita',ambizioni indifferenza,la necessita' di disporre di forza lavoro e' sempre più' rarefatta e il lavoro diminuisce in maniera direttamente proporzionale al progresso tecnologico.


E' una spirale che si sta' stringendo ad una velocità' impressionante; produrre e vendere non equivale più' a lavorare perché' le le macchine hanno vinto la loro battaglia con l'uomo che le ha inventate. 
La non cultura della merce, che può' essere solo acquistata e usata ha inquinato l'etica dell'imprenditoria.Limprenditoria che dovrebbe sfruttare la propria intelligenza creativa per ottenere risultati e produrre lavoro,alla fine si e' ridotta ad essere un bottega di lusso,remunerativa fin che si vuole,ma senza più' altro scopo se non quello di ricavare denaro dalla propria iniziativa.
Il denaro e' dventato il risultato principale da ottenere perché' si e' persa l'identita' e la comprensione dell'oggetto,della merce trattata,che non e' più' riconoscibile,spesso prodotta addirittura nell'altro capo del mondo ;quindi non bisogna stupirsi se la logica del profitto ha partorito mostri che tutti noi conosciamo.

La corruzione e' endemica in ogni società' ed e' appartenuta ad ogni epoca della storia, ma oggi e' riconducibile alla perdita d'identità' causata dal sistema produttivo dove il capitale,la ricchezza non si genera più' dalla creatività' imprenditoriale e dal lavoro delle persone,ma dalla distorsione del sistema produttivo,economico, che hanno delegato lo sviluppo tecnologico e il progresso industriale ad una "elite"  di persone,che e' causa  di sciagure in questi anni di fango che stiamo vivendo.
E' rimasto qualcosa oltre al desiderio spasmodico di accumulare denaro?

sabato 4 febbraio 2012

SACRO E PROFANO 2

"CITTADINI,CITTADINI,VIVA SANT'AGATA"


Ancora una volta Agata infiamma i cuori dei fedeli.
Dal 3 al 5 febbraio Catania dedica a Sant'Agata,patrona della città',una grande festa. Un fregolo d'argento " a vara", con un busto contenente le reliquie della Santa, viene instancabilmente seguito in processione da centinaia di fedeli devoti, vestiti con il tradizionale "sacco"(tunica bianca stretta da un cordone,cuffia nera, fazzoletto e guanti bianchi), aggrappati a due cordoni di oltre 100 metri. La Vara e' seguita da undici " cerei o cannaloni" alte colonne di legno che rappresentano le corporazioni delle arti e dei mestieri della città'.Su tutto questo,il grido unanime della devozione," Cittadini,cittadini,semu tutti devoti tutti"!
 e subito si alza il grido di risposta rassicurante “…Cettu,Cettu!”.

Nel 2008 la Festa di Sant'Agata è stata dichiarata dall'UNESCO come Bene Antropologico dell'Umanità.

Le candelore che sfilano in processione sono 11 così distribuite: la più piccola è stata fatta costruire da Monsignor Ventimiglia dopo l'eruzione lavica del 1766; seguono quella degli abitanti del quartiere S.Giuseppe La Rena e quella degli ortofrutticoltori, costruita in stile gotico; poi la candelora dei pizzicagnoli, in stile liberty; le candelore dei pescivendoli, fruttivendoli, macellai, pastai, panettieri, bettolieri, in stile barocco e rococò; ultima è la candelora fatta realizzare dal Cardinale Dusmet, per il circolo di S.Agata.".


La processione delle reliquie ha inizio il 4 febbraio e parte da Porta Uzeda; fuori della città il pesante carro di S. Agata viene fatto sostare davanti alla chiesa del Carmine e a quella di Sant'Agata la Vetere, poi torna nella Cattedrale e il giorno successivo procede nella zona interna della città. Sopra il carro della Santuzza è ospitato il bellissimo busto d'argento dorato e impreziosito di gemme e di una corona che pesa un chilo e mezzo, opera dell'orafo Giovanni di Bartolo; all'interno del busto sono conservate le reliquie di S.Agata.



lunedì 26 settembre 2011

SACRO E PROFANO


Quante volte, alzando gli occhi verso la sommità' di monte Gallo, avete notato una costruzione di colore bianco,il famoso ex Semaforo borbonico,un'antica costruzione ottocentesca militare,edificata al fine di  portare,allora, aiuto alla navigazione maritma notturna.
Da 25 anni ,il semaforo, e' diventato l'abitazione di Salvatore,detto Israele,un ex operaio fattosi, lassù' ,eremita per sfuggire alla vita caotica della società' d'oggi e per adempiere ad una missione che lo ha ispirato.


I segni del suo passaggio si cominciano già' ad individuare lungo il sentiero che conduce al semaforo costituiti in gran parte da stelle a sei punte che ricordano la stella di Davide.

Israele ogni tanto si rende disponibile ad accostare visitatori ed a scambiare qualche parola circa la sua vita ed  il suo progetto spirituale  fortemente influenzato dalla lettura dell'apocalisse spesso citata nelle sue raffigurazioni. 



 Egli ha integralmente decorato la struttura con mosaici che hanno,anche, un simbolismo profano con forti espressioni simboliche esoteriche.
         



Questi mosaici sono stati realizzati con elementi tipici dell'arte povera,come pietruzze colorate,pezzetti di vetro,mattoni e 
minuscoli sassolini raccolti a mare.



L'emozione prende lo spirito di fronte a questo spettacolo offerto dalla vegetazione da quel senso di pace  e di fronte a quel cielo e a quel mare che sembra fondersi all'orizzonte esprimendo il mistero dell'esistenza.


L'Acchianata ri Santa Rusulia
Monte Pellegrino, luogo simbolo della città di Palermo, protagonista indiscusso del capoluogo siciliano,accoglie tra le sue grotte il santuario di Santa Rosalia, la Santuzza dei palermitani e non solo.

Il monte è meta di pellegrinaggio  con la celebre “acchianata”, ovvero la salita sul monte, attraverso la scala vecchia,edificata tra il 1674 ed il 1725,per  celebrare la morte della "Santuzza" avvenuta, sempre secondo la tradizione, il 4 settembre 1166.
La salita e' percorsa a piedi dai fedeli

    
     
Il Monte e la grotta dell’odierno santuario hanno esercitato, fin dai tempi precedenti alla colonizzazione fenicia, un grande fascino sugli abitanti della zona. In epoca medievale inoltre, il monte veniva considerato luogo di eremitaggio per asceti e pellegrini, ricoprendo dunque da sempre una funzione sacra per la città.
Il 4 settembre si rinnova ogni anno questa  tradizione devozionale antichissima, l'acchianata alla grotta dove, secondo la tradizione, vennero rinvenuti i resti mortali di Santa Rosalia, la "Santuzza", patrona di Palermo.


Anno Domini 1624, a Palermo imperversa il morbo della peste, arrivata in città a bordo di una nave carica di doni: cammelli, leoni, lana, lino e gioielli per il vicerè Filiberto di Savoia da parte del re della Tunisia. 
Un pover’uomo, Vincenzo Bonello, saponaio in Via dei Pannieri, sale sul Monte Pellegrino per una passeggiata solitaria, o piuttosto per gettarsi da una delle rupi del monte per il dolore della perdita della moglie, portatagli via prematuramente dalla pestilenza.
Durante la sua ascensione al monte gli appare la figura di Santa Rosalia, che aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita romita proprio in una grotta del monte stesso. La Santa gli preannuncia la sua morte e gli chiede di portare un messaggio al cardinale Doria: “la peste in città cesserà soltanto quando le mie spoglie saranno portate in processione”. Il giovane, sconvolto, ridiscese in città raccontando quanto avvenuto; come predetto  egli mori' quattro giorni dopo.

Seguendo le indicazioni della profezia si portò in processione per la città, le sante reliquie. Fu così che la peste cominciò ad allentare il suo abbraccio mortale su Palermo e, il 9 luglio del 1625, si celebrò il primo festino: una solenne processione a cui partecipò il clero cittadino, l’aristocrazia e tutto il popolo palermitano. La festa durò nove giorni e il contagio, nonostante l’enorme quantità di gente presente alla processione, invece di diffondersi si arrestò.




Santa Rosalia Sinibaldo, da nobile a santa
Rosalia nasce a Palermo, intorno al 1128, dal conte (o duca) Sinibaldo, signore della Quisquina e delle Rose, discendente di Carlo Magno e da Maria Guiscardi, cugina del re Ruggero d’Altavilla, alla cui corte Rosalia visse gli anni della giovinezza tra gli agi propri della corte normanna attirando su di se, per la sua bellezza, gli interessi di parecchi nobili. Presso la stessa corte si trovava ospite il principe Baldovino, che soltanto qualche anno dopo sarebbe stato incoronato re di Gerusalemme. La leggenda racconta che proprio Baldovino, avendo salvato il re Ruggero da un leone (!?) e volendo il re ricambiarlo gli chiese in sposa Rosalia. La giovane, in seguito alla richiesta di nozze, si presentò alla corte annunciando la decisione di abbracciare la fede. Questa scelta sconvolse i genitori e la corte stessa, tanto da costringerla a rifugiarsi presso il monastero delle Basiliane a Palermo, ma questo non fu sufficiente a esimerla dalle continue visite dei genitori e del promesso sposo che cercavano di dissuaderla dal suo intento. Decise quindi di trovare rifugio presso una grotta nei possedimenti del padre, alla Quisquina. La sua fama si diffuse e la grotta divenne luogo di pellegrinaggio. A questo punto la giovane eremita decise di abbandonare il suo rifugio e di recarsi in un'altra grotta sul Monte Pellegrino dove visse fino alla sua morte, avvenuta presumibilmente il 4 settembre del 1160 o 1165. Da allora a Palermo, come ogni anno dal 1625, la sera del 14 luglio, la processione parte dal Palazzo reale e si snoda lungo l’antico Cassaro fino a mare, fermandosi dinanzi la Cattedrale e ai Quattro Canti, punto in cui il sindaco della città sale sul carro e depone dei fiori ai piedi della Santa, gridando “Viva Palermo e Santa Rosalia”. Non appena la processione arriva al Foro Italico hanno inizio i fuochi d'artificio che durano fino a tarda notte.






E comu Virginedda palermitana priamu a Tia!
Viva Santa Rusulia
E i malati di Tia Vonnu a Grazia  i Tia
Viva Santa Rusulia
Guerra, timpesta e tirrimotu, , priamu a Tia
Viva Santa Rusulia 
E un stancamu mai, priamu a Tia
Viva Santa Rusulia
E comu palermitani priamu a Tia
Viva Santa Rusulia
E i palermitani vonnu a grazia i Tia
Viva Santa Rusulia

Notti e ghiornu faria sta via
Viva Santa Rusulia
Ca nni scanza a morti ria
Viva Santa Rusulia
Ca nn’assisti a l’agunia!
Viva Santa Rusulia
Virginedda gluriusa e pia
Viva Santa Rusulia
Ogni passu ed ogni via!
Viva la nostra Santa Prutittrici Rusulia!
E chi semu muti? .... Viva!
Viva Santa Rusulia

Viva Palermu e Santa Rusulia






 

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